Che senso ha la fatica di studiare?

Arriva maggio e il pensiero è lo stesso per tutti: studiare. D'altronde c'è poco da pensare, basta non vivere una realtà parallela per appurare che come sempre in questo periodo interrogazioni e verifiche si accavallano preoccupantemente. La data segna ancora aprile ma ormai ci siamo dentro, inevitabilmente.

Sappiamo tutti quanto si studia in questi giorni e pure come andrà il mese prossimo: uno studio stressante, urgente, "matto e disperatissimo" che lascia rari e brevi momenti per tirare un respiro. E in più rispetto agli anni scorsi bisogna recuperare le verifiche che sono saltate a marzo causa la chiusura. Un delirio.


Bene, scaricata la vena pessimistica e iperbolica (ma con una base di realismo) vorrei esporre un pensiero che in questi giorni mi sorge quando mi ritrovo a studiare in ritardo per alcune interrogazioni che inevitabilmente a cascata complicano tutta la mia programmazione successiva. Perché tutta questa fatica? A cosa mi serve passare giorni interi in casa e dormire meno per studiare filosofia, fisica, italiano, matematica, scienze? (ovviamente la lista continua, ognuno aggiunga quella a cui "tiene di più") E non vedendo una fine finisco per scoraggiarmi perché per quanto tenga ad avere buoni voti non è una ragione sufficiente a sopperire a questa fatica senza scopo.

E di fronte a questa fatica càpita più spesso di leggere tra i messaggi i rassegnati "tanto è da fare" o "ah, fai diverso". Ma quest'anno, sarà che sono più sensibile io o forse c'è più da studiare, mi rendo conto che voglio andare oltre questa rassegnazione, smettere di rimandare la questione. Quindi lo domando a chi mi ascolta, cerco risposte. Ma sia chiaro, non risposte che mi risparmino quella fatica, perché i miei pomeriggi di studio non me li toglie nessuno, piuttosto un significato alla fatica, che di per sé non è un male.


Allora mi torna in mente una cosa che mi ha fatto leggere un amico qualche giorno fa, la breve lettera che un preside ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti era solito inviare ai suoi insegnanti all'inizio di ogni anno scolastico. Racconta di aver visto le peggiori atrocità commesse da menti perfettamente istruite, geniali nei loro campi, per cui scrive "la mia richiesta è la seguente: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. [...] La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani". E intravedo una risposta alla mia domanda, perché questa richiesta implica uno sguardo diverso, la possibilità di una relazione studente-professore che non si limita alla materia insegnata, non si chiude nelle pagine del libro di testo su cui uno studia e con cui l'altro spiega, ma attraverso quella materia si interessa a una dimensione più profonda che è quella umana, usa quell'ora di lezione come un'occasione per crescere sotto quell'aspetto. È un percorso di crescita, e nessuna crescita avviene senza fatica, senza spendere energie, ma ciò che è diverso è il fine di un insegnamento che non si chiude al dato umano ma ad esso si lega inscindibilmente per essere educazione.


Così pensando, mi torna in mente un articolo letto ormai tre mesi fa sul Corriere della Sera, in cui il professore e scrittore Alessandro D'Avenia parla di "una cultura che ama la vita". Tornato in presenza da poco dopo la chiusura invernale delle scuole, racconta così i primi giorni di ritorno in classe e le interrogazioni su I Promessi Sposi: "Non avevamo reso il romanzo utile a fare interrogazioni ma interrogativi, grazie a Manzoni eravamo ancora «più in presenza»: accorti, pazienti, riflessivi. Non un semplice stare al mondo, ma un più profondo abitarci attraverso l'esperienza umana distillata in un grande classico". Un più profondo abitarci. Ovvero tramite lo studio una maggiore attenzione a sé e alle cose che ci circondano, a quelle che ci stanno più a cuore. 


Queste parole però fino a qualche giorno fa non le comprendevo, restavano nebulose, astratte. Le conservavo senza sapere che farmene, come muovermi concretamente, come fare sì che questo diventasse anche il mio approccio allo studio. Fino a qualche giorno fa, quando alcuni amici mi hanno invitato a collegarmi su Zoom a un incontro proposto dalle scuole Malpighi di Bologna in cui uno studente parlava del suo rapporto con lo studio della Divina Commedia e in generale della figura di Dante. In quello che raccontava ho visto un esempio concreto della possibilità di vivere davvero lo studio, cioè legarlo alla propria vita in modo da integrare l'uno all'altra e viceversa. Una cosa tra tutte quelle che ha detto mi ha sorpreso, forse proprio perché prima di dirla l'ha vissuta: raccontava di come un pomeriggio nel rapporto con una sua amica avesse capito più a fondo un aspetto della relazione tra Dante e Beatrice, in una terzina particolare del Paradiso. È riuscito a studiare qualcosa così a fondo, a interiorizzarlo tanto da farne un confronto con la propria esperienza, tanto da trattarlo come un'occasione di lavoro attraverso cui crescere.


Questo è il mio desiderio in questo momento, è ciò di cui ho bisogno: non separare vita e studio come due ambiti diversi ma poter dire di vivere mentre si studia, quindi non ritenerlo tempo sprecato. Questo dà un senso immenso a quella fatica che vivo soprattutto ultimamente e da cui potrei restare schiacciato o, peggio forse, che potrebbe portarmi a considerare lo studio, la cultura "solo passatempo o erudizione" portandomi così ad essere "non più umano ma più indifferente", per riprendere l'articolo di D'Avenia.


A questo punto è necessario chiarire: non si pensi che ora il problema sia risolto, che abbia miracolosamente imparato a studiare, non è così. Quello che cambia è che ho visto qualcosa che entra in sintonia con la domanda da cui sono partito, e se voglio prenderla e prendermi sul serio non posso bendarmi gli occhi e fare finta di niente ma devo e voglio provare a seguire questa cosa, a tenerla viva per affrontare lo studio come qualcosa di personale e cioè come un percorso di crescita che rende utile, funzionale addirittura la fatica.


Lorenzo Casadei

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