Tra storia e rockabilly - Intervista a Mattia Flamigni


 Siamo in tre, seduti attorno a un tavolo. Ci troviamo alla Fiasca, locale all’aperto: quest’intervista è ambientata a settembre, tempi in cui ancora era possibile andare a scuola in presenza o ritrovarsi in luoghi del genere, prendere qualcosa da bere e parlare.

Gli intervistatori siamo io e Lorenzo, il disponibile protagonista è invece Mattia Flamigni, supplente liceale che abbiamo conosciuto alla nostra scuola come professor Flamigni, e batterista dei The Same old Shoes, band forlivese di genere rockabilly. Ad accompagnarci, immancabile, la musica del locale, che idealmente si integra e completa i nostri discorsi, immaginate: io accendo il registratore del cellulare e mi rivolgo all’intervistato.


Tu svolgi questa doppia professione: da una parte batterista di una band rockabilly, dall’altra professore, da noi al liceo. Anche di sostegno?

«Sì.»

Alle medie non hai insegnato?

«No, non posso. Ti correggo, non sono un batterista: è un hobby, non una professione, è un passatempo diventato gradualmente più serio, ma non sono un vero musicista e neanche un vero professore, sono ancora un supplente. Non ho un titolo di abilitazione per insegnare a scuola, ho solo titoli accademici, faccio il supplente per le mie materie quando posso, quando non trovo posto lo faccio di sostegno.

La mia vera professione è lo storico, l’ho fatto per tre anni, poi ho pensato che, proprio per aver più tempo per suonare, la scuola mi avrebbe lasciato più tempo libero: sbagliavo, ma mi piace di più lavorare a scuola ed entrare a contatto coi ragazzi.

Il lavoro dello storico si fa per lo più in archivio su vecchi documenti polverosi, molto bello, emozionante, e tre quattro volte all’anno ti ritrovi a dei convegni a parlare delle scoperte emozionantissime che hai fatto davanti a della gente che sbadiglia. Anche a scuola c’è la gente che sbadiglia, però ce n’è di più ai convegni. A breve si terrà il concorso per l’abilitazione, spero di diventare professore a tutti gli effetti.»


Partiamo allora dal lato musicale. Sono curioso di una cosa: perché il rockabilly? È un genere che è nato e vissuto negli anni 50, però da allora la musica è cambiata tanto e oggi è difficile trovare persone appassionate a questo genere e band che lo suonano, almeno nella mia esperienza. Da cos’è nata questa passione per il rockabilly?

«Per caso, non sono nemmeno appassionato di rockabilly se ti devo dire la verità, ho iniziato a suonare le canzoni dei Radiohead, dei Nirvana, Oasis, gruppi di quando ero ragazzino. Io ho questa passione per le cose vecchie, non a caso faccio lo storico: sono andato a vedere che cosa si suonava negli anni ’70, ovvero Led Zeppelin, Deep Purple, Pink Floyd, il progressive… allora ho messo su una band per suonare quella musica, ma prima cosa c’era? Negli anni ’60 c’erano i Doors, i Jefferson Airplane, Beatles, Rolling Stones… e ho suonato quella musica, poi andando sempre più indietro mi sono appassionato alle radici del blues, del country, e poi ho visto che c’è un incrocio di tutte queste radici ed influenze: il rockabilly.»

Sono proprio la musica e la storia che si uniscono. 

«Sì, è la passione per l’andare a vedere cosa c’era prima. Sono anche molto interessato dal periodo storico che va dagli inizi del ’900 fino agli anni ’50 in America, è un tempo e un luogo per me entusiasmante da studiare e vivere attraverso la musica dell’epoca. Ho iniziato a suonare rockabilly tardi: dopo la laurea del 2013 io e il mio amico, cantante, abbiamo fatto un viaggio in America dalla costa est alla costa ovest, passando per tutte le città della musica, Nashville, Memphis, New Orleans, Austin, fino a Los Angeles. Abbiamo ascoltato decine di concerti, abbiamo visitato i luoghi di nascita di Elvis, di Muddy Waters, di Robert Johnson, e siamo tornati con l’idea di suonare rockabilly, immaginandoci, come te adesso, che non ci fossero molti appassionati, specie in Europa, ma in seguito ci siamo resi conto che erano tantissimi.

Erano gli anni in cui stava espandendosi l'American Graffiti, dove si facevano concerti surf, blues, funky, swing e concerti rockabilly. Abbiamo messo su la band e abbiamo iniziato a suonare negli American Graffiti di tutta Italia, e presto ci siamo accorti che c’era una scena musicale che andava ben al di là dell’Italia. C’è una scena attivissima in Svizzera, in Francia, in Germania, Belgio e Olanda, e ci sono decine e decine di festival che chiamano band da tutto il mondo a suonare. Ci siamo galvanizzati: dovevamo suonare bene, perché così potevamo suonare all’estero.

Dal 2015 noi ogni estate – anche il cantante fa il professore, quindi possiamo solamente d’estate – giriamo per l’Europa in questi festival, tranne quest’anno a causa del covid. E poi c’è il festival più grande del mondo… No, il primo è il Viva Las Vegas, in America, il secondo festival più grande del mondo di musica e cultura anni ’40 e ’50 è il Summer Jamboree di Senigallia, a due passi da casa nostra, che si svolge dall’ultimo weekend di luglio al primo d’agosto ogni anno, gratuito, nel centro storico di Senigallia, città sul mare molto bella, dove ci sono tutte le ore del giorno e della notte decine e decine di concerti. È molto bello vivere la città in quel periodo, vi consiglio di andarci quando si potrà.»

Sono andato una volta a Senigallia, anche tu, no?

Lorenzo risponde: «Sì, adesso che ci penso c’era un palco in centro…»

«Nel foro annonario c’è un super palco gigantesco.»


Mi piace come vi siete appassionati a questa cultura e a questa musica, nonostante sia avvenuto in ritardo.

«Sì, io rimango un appassionato di blues e di country, di rockabilly meno, è una musica più povera, ha meno dimensioni del country e del blues. Noi mettiamo molto country nei nostri spettacoli, il rockabilly è una musica da ballo, più allegra e frizzante ma forse più superficiale.»

A proposito ho ascoltato alcuni dei vostri album e si sente molto il country, pur rimanendo musica rockabilly, e mi ha colpito come il suono ricerchi quegli anni lì. È merito di una registrazione particolare?

«Sì, stavo arrivando proprio a quel punto. Se si ascolta un disco rockabilly senza avere idea della provenienza di quella musica, viene da pensare che sia stato registrato in cantina con un microfono da 20 euro, in realtà li abbiamo registrati allo studio “L’Amor Mio Non Muore” qua a Forlì, che utilizza solo strumentazione analogica degli anni ’60 o precedente, non usa il computer, ma registra sui nastri.

Siamo andati a registrare lì sotto la produzione di Stelio Lacchini, il contrabbassista dei Goodfellas – un gruppo swing di Forlì che tra l’altro accompagnava Aldo, Giovanni e Giacomo nei loro spettacoli –, grazie al quale abbiamo cercato di ricreare questo suono di fine anni ’40 inizio anni ’50, con esiti altalenanti, ma bene o male ci abbiamo provato.»

Si sente che non è degli anni ’50, ma in qualche modo sembra provenire dagli anni ’50.

«Sì, questo era l’intento.»


Rimanendo in tema, questa musica non si presta molto a essere ascoltata dai giovani.

«No, direi di no.»

Non c’è proprio nessun modo in cui un giovane si possa appassionare a questa cultura?

«Assolutamente sì, ad esempio andare al Summer Jamboree di Senigallia, che è una grande festa alla quale partecipavano migliaia e migliaia di persone in giro per la città, con concerti non solo rockabilly ma anche swing, rock’n’roll, country, blues, di ogni genere che andava tra i ’40 e i primi ’60 in America.

È un festival dove i giovani si divertono molto e spesso scoprono di appassionarsi: per esempio ho alcuni amici ballerini, del ’99-2000, che ci seguono quando andiamo a suonare e che hanno scoperto questa musica a Senigallia per caso, e ci si sono appassionati tanto da essersi iscritti a una scuola di ballo per seguire band come la nostra ai concerti. Mi accorgo che questa cosa oggigiorno suona un po’ grigia e polverosa, anche perché si è abituati ad ascoltare altro per radio, televisione o attraverso internet.»

Ma non è morta, molti ancora ne sono influenzati.

«Morta assolutamente no, ci sono decine di migliaia di appassionati attivissimi in giro per l’Europa. Non è più così influente nella musica odierna, ma è spesso utilizzata in film o cortometraggi; per esempio, avete mai visto “Fratello, dove sei?”»

Personalmente no.

«È un bellissimo film dei fratelli Coen – quelli di “Fargo” e “Il grande Lebowski” – con George Clooney, dove c’è solo questa musica come colonna sonora. Prendi anche Tarantino: le musiche che usa sono più verso il sixties o il surf, però all’interno di alcuni prodotti culturali, se non nel mercato discografico, è molto presente ancora questa musica.»


Questo era l’aspetto musicale, e come dicevamo prima stai cercando di ottenere un lavoro da professore, anche se attualmente non è possibile. Stai vivendo la situazione del coronavirus che ha rallentato tutto, e c’è la difficoltà dell’unire tutto ciò alla musica, quindi, secondo te è veramente così difficile essere professori al giorno d’oggi o è un percorso semplice e più sicuro e vantaggioso di altri?

«Inizialmente avevo pensato di provare a fare il supplente, anche perché il posto all’università quell’anno non c’era, quindi si può dire che fosse una scelta di ripiego, ma nel farlo mi sono divertito tantissimo: se mi dessero una cattedra e mi dicessero “non ti paghiamo, lo fai gratis”, sarei contentissimo anche di farlo gratis. È un lavoro bellissimo ed entusiasmante, oltre che difficile e impegnativo.

È difficile coniugarlo con un’altra attività, però la musica non è un’attività lavorativa, è un hobby, che per lo più svolgiamo d’estate: non vado a suonare il sabato sera a Monaco di Baviera, poi torno di notte e arrivo il lunedì mattina a scuola con le occhiaie, questo no, non lo faccio (ride, ndr).»

Quindi il tuo obiettivo sarebbe di continuare a fare entrambe le cose?

«Il mio obiettivo è di fare bene il concorso – che ormai rimandano da tre anni – e ottenere la cattedra, per il resto la musica è un hobby, finché mi diverto a farlo continuerò, se dovessi stufarmi so che di cose belle nel mondo ce ne son tante.»


Lorenzo interviene con una domanda: «In classe, giustamente, cerchi di tenere musica e insegnamento separati, ma per te ci sono tra le due cose dei punti di contatto?»

«Forse qualche punto di contatto c’è, ed è il fatto che sei su un “podio” quando fai entrambe le attività: sei sul palco quando suoni e quando insegni sei in cattedra, puoi fare delle note sbagliate quando suoni e puoi sbagliarti a spiegare delle cose in classe, c’è questo fatto di compiere un’attività in estemporanea cercando di dare il massimo nell’ora in cui la stai facendo e di sbagliarti meno che puoi. Un’altra cosa in comune è che stai svolgendo un’attività di fronte a delle persone che hanno delle reazioni: le reazioni ottimali sarebbero quando suoni che la gente si diverta e balli, e quando insegni non vedere cadere le teste sui banchi.»


Sono interessato a sapere qualcosa sulla situazione dovuta al coronavirus. Personalmente il lockdown (il primo, ndr) è stato molto difficile da vivere, soprattutto gli ultimi mesi, perché la mancanza di contatto con gli altri è davvero un colpo duro da sopportare. In generale, tu come hai vissuto il coronavirus? Cos’hai cercato di fare nel tempo libero che hai avuto e come hai gestito la situazione?

«Premetto che un po’ mi vergogno del discorso che sto per fare. Inizialmente, il primo mese-mese e mezzo di lockdown la mia vita in realtà è cambiata pochissimo. Non dico che me la sono vissuta bene perché non me la sono vissuta bene, piuttosto facendomela stare bene.»

È una cosa positiva secondo me.

«Avevo lasciato l’incarico da voi perché era rientrata la vostra professoressa di ruolo e continuavo a svolgere il mio incarico di sostegno al liceo classico: avevo una ragazzina con la quale facevo tutte le mattine videolezioni uno a uno, e questo mi teneva ancora ancorato alla realtà. E poi il resto del tempo lo occupavo leggendo e studiando, anzi, i miei studi hanno tratto grande giovamento dall’avere tutta quella quantità di tempo libero.

Verso la fine del lockdown ho cominciato ad accusare il distacco da parenti, amici e persone in generale, poi per fortuna prima che iniziasse a pesarmi troppo lo hanno tolto. Devo dire che… dire che è stata un’esperienza positiva è una parola grossa, però non è stata un’esperienza negativa.»

Secondo me il riuscire a trarre il meglio da questa situazione orribile è stata una cosa davvero positiva.

«Sono stato fortunato anche perché non ho avuto problemi fra amici e parenti, quello immagino incida. Sono stato fortunato, mettiamola così.»


Ci interrompiamo un secondo. Guardo Lorenzo negli occhi: capisco che qualcosa gli passa per la testa.

Prende la parola: «Ecco, mi è piaciuto quando prima hai detto che sentirti con quella ragazza ti aveva tenuto ancorato alla realtà durante il lockdown. Hai detto che aver vissuto “bene” la quarantena è una parola grossa: io la parola grossa la uso per descrivere la mia quarantena, perché l’ho vissuta bene.

Per esempio, ho approfondito il rapporto con alcuni compagni di classe che vedendo tutti i giorni davo per scontato di conoscere: sicuramente è stato positivo.

Stare ancorato alla realtà, lo dici riferendoti a qualcosa che è successo nel lockdown, perché si finiva per stare con se stessi, con i propri pensieri, ed era quindi più evidente; ma questo bisogno di cui tu parli – avere qualcosa che ci tiene ancorati alla realtà – credo che ci sia anche adesso, o che ce ne fosse bisogno l’anno scorso o quando usciremo dalla pandemia con il vaccino e tutto il resto. Non lo so se hai la tua idea su questo, non lo so… Io sento di avere bisogno di qualcuno che mi richiami dai miei pensieri.»

«Intanto è una domanda da niente (ride ndr). Hai toccato molti temi, e i primi che hai toccato non li ricordo già più. Stare ancorato alla realtà, approfondire dei rapporti, delle conoscenze… nella situazione del coronavirus e in generale nella vita.»

Lorenzo interviene di nuovo: «Sì, d’altronde quest’estate l’abbiamo vissuta abbastanza normalmente e anche adesso non ci sono le limitazioni di prima, si torna a una mezza normalità.»

«Si torna a vivere col pilota automatico, questo stai forse dicendo.»

«Sì, sì.»

«Ragazzi, da docente di filosofia mi viene da citare Heidegger, ma non ve lo cito Heidegger, vi lascio stare (cambierà idea ndr). Partiamo dal facile, da dove è venuta la frase: continuando a fare il mio lavoro, interagire quotidianamente con questa ragazzina mi ha tenuto ancorato alla realtà, in che senso? Nel senso che tutto quel tempo che uno poteva perdere o sprecare durante la quarantena, facendo niente o facendo cose non significative, io per almeno un'oretta al giorno lo impiegavo facendo qualcosa di significativo. Facevo qualcosa di utile non solo per me ma anche per un’altra persona, e credo che se non lo avessi avuto avrei perso la bussola, stando due mesi galleggiando per casa senza far niente.

È una sorta di bussola, dire “questo è il tuo mestiere, questo è il servizio che tu stai facendo, continui a farlo e sì, fa bene a chi lo sta ricevendo, ma fa bene anche a te”; mi consente di dare un significato alle azioni che faccio tutti i giorni, a non avere quella che Heidegger potrebbe chiamare una “vita inautentica”, cioè una vita col pilota automatico, una vita in cui mi alzo, accendo la televisione, mi metto sul divano, faccio divano, letto, cucina, guardo un video su Youtube, capisci… essere ancorati alla realtà, forse sarebbe stato meglio esprimerlo dicendo “fare qualcosa di significativo”, qualcosa di autentico, che se lo fai bene fa bene anche agli altri, ma in primo luogo a te, qualcosa a cui dai un significato, che ti piace per quel significato. Non so se ho risposto alla tua domanda, più di così faccio fatica in questo momento.»

«Sì, assolutamente.»


Anche a me è piaciuta la domanda, e anche la risposta. C’è una cosa a cui non avevo pensato prima, a cui non avevo dato troppo peso: sei un professore di filosofia. Questa cosa della filosofia, soprattutto quando hai iniziato a studiare, la sentivi come una passione?

«No. La risposta è un no secco, io la filosofia non la capivo e non capivo perché fosse importante, perché dovessi far fatica e scervellarmi per comprendere cosa dicessero i filosofi, non capivo la rilevanza che aveva nella vita di tutti i giorni e nella mia esperienza personale: questo per tutti gli anni del liceo.

All’università poi mi sono iscritto a storia e gli esami di filosofia li ho dovuti dare, però li ho scelti… Ho barato: l’esame di filosofia teoretica, per cui si deve studiare la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, potendo scegliere l’ho evitato. Ho preferito storia dell’illuminismo, della scienza, quelli insomma in cui riuscivo a vedere qualcosa di tangibile.»

Quand’è che è scattata questa scintilla allora?

«La scintilla è scattata quando ho dovuto studiarla per insegnarla a scuola, perché ho fatto la laurea triennale, la laurea magistrale e il dottorato in storia, però pur col titolo di dottorato non potevo insegnare a scuola, avevo bisogno di prendere 36 crediti aggiuntivi di filosofia. Ho dato così tre esami, e lì, leggendo “Al di là del bene e del male” di Nietzsche, ho pensato: ma lo sai forse che alla fin fine è interessante?

Poi il primo anno mi sono ritrovato a insegnare in una quinta sia storia sia filosofia, e molte cose me le sono dovute studiare da autodidatta; ho scoperto cose bellissime, e negli anni seguenti ho approfondito tutto il programma di scuola, perché non posso trovarmi a insegnare, per esempio, Agostino, senza aver letto “Le Confessioni”: potrebbe essere un problema. Quindi ho studiato tutto, ed è appassionante! Anzi, quell’anno mi sono divertito più a insegnare filosofia che storia.»

Quindi ribaltamento completo!

«Come formazione, come “forma mentis” e come competenza in realtà sono uno storico, credo di essere più efficace a insegnare storia che filosofia, e ci metto meno tempo a preparare le lezioni, però quell’altra è una sfida, e mi piace, mi diverte, mi intriga.»


Uno alla nostra età può essere molto insicuro sul futuro e non saper bene cosa fare della propria vita: magari ogni tanto è proprio la vita che ti dà qualcosa e quando meno te lo aspetti ti dice: ecco, questa cosa potrebbe appassionarti e cambiarti.

«Esatto.»

Anche io sono così, a volte ho dubbi e non so cosa farò o cosa non farò: bisogna saper aspettare di più o serve anche cercare? Cos’è più importante?

«Siamo arrivati a lezioni di vita che non avendo ancora ottant’anni faccio fatica a dare. Nella mia limitata esperienza personale credo che il mondo sia pieno di cose belle da fare e di cui appassionarsi, se uno ci si mette seriamente, a meno che non sia una cosa che proprio non è nelle tue corde; ad esempio non è nelle mie corde medicina, mi fa senso il sangue, mettere le mani addosso a qualcheduno, quello non lo potrei fare. Ma se ci si appassiona e si impara con impegno qualcosa, tutto è bello, io penso questo.»


Per poco ancora, continuiamo a parlare amichevolmente. La musica non si è fermata, mentre le sedie, raccolte intorno ai tavoli, sono occupate da nuove persone. Anche per noi è arrivato il momento del congedo, e Mattia saluta i lettori con tangibile imbarazzo – sa che si tratta solo di una registrazione – ma tanta buona volontà. Anche io e Lorenzo salutiamo: leggete, leggete, leggete gli articoli del giornalino e fruite di tutti i nostri contenuti. Ciao a tutti.


Giorgio Casamenti

Lorenzo Casadei



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